"L'uomo è come un pescatore saggio che gettò la rete in mare e la ritirò piena di piccoli pesci. Tra quelli il pescatore saggio scoprì un ottimo pesce grosso. Rigettò tutti gli altri pesci in mare, e poté scegliere il pesce grosso con facilità. Chiunque qui abbia due buone orecchie ascolti!"
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La mente crea i fantasmi che vorrebbero imprigionarci nel dolore

La mente con le sue svariate dinamiche, nel pensiero filosofico occidentale, è stata decisamente sopravvalutata, al punto da divenire quasi il sinonimo dell’io e da prendere il posto del concetto, molto più ampio e comprensivo, di anima.

E allora diciamolo forte e chiaro: la mente è solo una parte dell’io; generalmente la più petulante, la più stupida, la più aggressiva: quella che ci vorrebbe sottomettere alla sua logica perversa, a scapito del nostro stesso bene, di cui nulla le importa.

Il male probabilmente più diffuso della nostra società, la depressione, è un prodotto della mente e dei suoi fantasmi; e così lo sono l’ansia, l’aggressività, l’insicurezza, la paura, la brama, la frustrazione ed il senso di inadeguatezza, con tutto il loro inevitabile corollario di malesseri e di malattie del corpo.

Noi non stiamo bene con il nostro corpo, quando il nostro corpo non va d’accordo con la mente; o meglio: quando la nostra anima subisce la dittatura della mente: dittatura implacabile, ferrea, che tende a reiterare sempre le stesse dinamiche ossessive, delle quali si alimenta.

Ogni qualvolta noi ci fissiamo su un’idea negativa, cadiamo vittime del ricatto della mente, della prepotenza della mente; anche se lo abbiamo fatto chissà quanti anni prima, magari nell’infanzia, allorché la nostra mente si è persuasa di una nostra incapacità, o di un nostro difetto o di una nostra colpa, presto o tardi essa ci presenterà il conto.

E sarà un conto salatissimo.

Perciò, a dispetto del ricatto cui la mente incessantemente tenta di sottoporci, bisogna aver chiaro che non esistono colpe che non possano essere perdonate, che noi non possiamo perdonare a noi stessi; tanto più che la nostra mente tende a incolparci di qualsiasi cosa, instillando in noi l’idea che una enorme responsabilità grava sulle nostre spalle e che, se non saremo all’altezza di portarla, per causa nostra avverranno chissà quali disastri.

La mente tenta di ipnotizzarci, caricandoci di sensi di colpa verso noi stessi e verso gli altri; poi, quando siamo ipnotizzati a dovere, ci schiaccia sotto il loro peso e suscita in noi una reazione di rifiuto, che aggrava ulteriormente il nostro malessere: perché non è negando il dolore che potremo uscirne, ma accettando gli stati dell’essere che stiamo via via attraversando.

Questo non significa che non esistano responsabilità di alcun tipo o che non esistano, in assoluto, anche delle colpe.

Esistono responsabilità ed esistono colpe; ma le responsabilità, il più delle volte, non sono così enormi come la mente vorrebbe farci credere, per poterci meglio tenere in suo potere; e le colpe non sono così imperdonabili come essa, per la stessa ragione, vorrebbe renderci persuasi: esiste una legge cosmica di interazione fra tutti gli enti, per cui il nostro agire non è mai così assoluto, così determinante come siamo propensi a credere, né in male né in bene.

Le cose accadono quando esistono delle ragioni a ciò sufficienti: e questa, che a tutta prima potrebbe sembrare una autentica banalità filosofica, è, viceversa, una delle più alte forme di consapevolezza cui un essere umano sia in grado di pervenire.

La conseguenza più diretta di tale legge universale è che, quando noi ci incolpiamo o ci vantiamo per aver provocato il tale o il talaltro evento, stiamo decisamente esagerando sia la nostra colpa, che il nostro merito.

Di fatto, noi non potremmo determinare un bel nulla, se non esistessero innumerevoli altre circostanze che rendono possibile l’effetto delle nostre azioni, sia in senso positivo che in senso negativo.

Noi non siano così importanti come crediamo di essere, anche se importante è la nostra fedeltà a un sistema di valori ben preciso; in altre parole, quello che conta non è tanto l’esito del nostro agire, ma le motivazioni di esso.

La pratica della meditazione, in effetti, altro non è che il modo dell’essere di cui si serve l’anima per liberarsi dalla dura tirannia della mente; per lasciar cadere i pensieri ad uno ad uno, mostrandone il carattere illusorio, finché non rimane altro che una grande pace.

La mente è sempre irrequieta e turbolenta; non concede tregua, non conosce respiro; Dante lo aveva magnificamente compreso e descritto con mirabile concisione in quel passo della «Divina Commedia» («Purgatorio», V, 16-18):

«ché sempre l’uomo in cui pensier rampolla

sovra pensier, da sé dilunga il segno,

perché la foga l’un dell’altro insolla».

Non bisogna ascoltare tutto quello che essa dice; non bisogna subire il suo ricatto, né lasciarsi schiavizzare dalla sua prepotenza.

La filosofia orientale si era già accorta della natura illusoria e prevaricatrice della mente nell’economia della vita interiore, e ne aveva delineato un quadro di straordinaria chiarezza, molto prima che in Occidente – tutti assorti a celebrare le lodi del Logos razionale – si sospettasse anche solo alla lontana qualcosa del genere.

Nell’immortale poema della spiritualità indiana, la «Bhagavad-Gita», Arjuna risponde a Krsna, che gli aveva delineato lo splendore incommensurabile della dottrina Yoga (cap. 6, 33-34; traduzione di Bhaktivedanta Swami Prabhupada):

«O Madhusudana, non vedo come io possa mettere in pratica questo Yoga che tu hai brevemente descritto, poiché la mente è agitata e instabile. La mente, o Krsna, è agitata, turbolenta, ostinata e molto forte; dominarla mi sembra più difficile che controllare il vento».

Al che il dio Krsna, nella sua ineffabile calma luminosa, pazientemente risponde al suo sgomento discepolo (idem, 6, 35-36):

«O Arjuna dalle braccia potenti, è certamente difficile domare questa mente agitata, tuttavia è possibile, o figlio di Kunti, con una pratica costante e col distacco. Per chi non ha il controllo della mente, la realizzazione spirituale sarà un’impresa difficile. Ma per colui che domina la mente e si sforza nel modo giusto, il successo è sicuro. Questa è la mia opinione».

Difficile, dunque, ma non impossibile; e, in ogni modo, meno difficile di quel che può sembrare a prima vista, se ci si applica con diligenza e, soprattutto, se vi vede con chiarezza quali sono le astuzie di cui la mente si serve per tenerci soggiogati in suo potere e in che cosa consiste la posta in gioco: cioè non solo la liberazione dell’anima dai turbamenti della mente, ma anche il raggiungimento dell’unione con l’Essere e la realizzazione del divino che è in noi, con il senso di appagamento e di pace che ne deriva.

L’anima nostra, infatti, è inquieta e turbolenta perché anela a trascendere se stessa, ma non ne è consapevole; oppure, se lo diviene, perché non vede gli strumenti e le vie a ciò adatti: e non v’è angoscia più insopportabile della costrizione, per l’anima umana, che quella di consumarsi e logorarsi nell’orizzonte del finito e del contingente.

Questo è stato il grande peccato delle filosofie moderne: aver voluto negare che il bisogno di trascendenza è costitutivo dell’anima umana, è una sua struttura ontologica.

Infatti, per individuare la via della liberazione dai continui turbamenti della mente, che cerca di spaventarci e di respingerci con i fantasmi che incessantemente evoca, è necessario raggiungere la consapevolezza che noi non siamo frammenti di realtà scaraventati a caso nel mondo, ma che siamo manifestazioni della potenza divina che pervade tutto l’universo; e che il nostro vero tormento nasce dall’illusione di crederci separati dall’Assoluto.

Solo quando si sia ben compreso che la nostra anima è parte dell’anima universale; che noi siamo parte dell’Essere e che il nostro destino e il nostro compimento, così come la ragione della nostra chiamata, consistono nel farvi ritorno con tutta la pienezza e la gioia di cui essa è suscettibile: solo allora potremo incominciare il percorso della liberazione.

Perciò la meditazione è una tecnica che aiuta la coscienza a liberarsi dalle lusinghe e dalle minacce continue della mente, ma non va assolutizzata: è lo strumento, non il fine da raggiungere; e ogni strumento va usato con intelligenza e senso pratico.

Ad ogni modo, bisogna tener presente che la mente, lasciata libera di imperversare nella nostra anima, finisce per diventare un nemico insidioso, che non può essere affrontato frontalmente, ma con astuzia proporzionata alla sua.

Quando un pensiero molesto, ossessivo, colpevolizzante, ci assale, quello che bisogna evitare è sia di rifiutarlo, fingendo che non esista, sia tentare di resistergli, facendo argine, per così dire, contro di esso.

Il primo atteggiamento fa sì che esso scompaia solo apparentemente; in realtà, si appiatta nel fondo dell’anima, in qualche oscuro recesso, pronto a riemergere con forza raddoppiata quando noi saremo più deboli – magari a distanza di anni o decenni.

Il secondo, paradossalmente, fa sì che quel pensiero si alimenti incessantemente proprio delle energie psichiche con le quali noi cerchiamo di tenerlo a bada e di contrastarlo: perché, combattendolo, altro non facciamo che aumentare la sua forza e renderlo ancor più signore della nostra anima martoriata.

No: la giusta strategia che si deve adottare non consiste né nel fuggire, né nel resistere; ma nel lasciare che esso attraversi la nostra consapevolezza e, poi, accompagnarlo al di là di essa, come un ospite sgradito che non si può né cacciare, né sopraffare, ma che bisogna lasciar passare, senza offrirgli alcun punto d’appoggio, alcun pretesto perché possa trattenersi più a lungo dello stretto necessario.

In un certo senso, questo concetto si avvicina a quello di «cavalcare la tigre» caro agli esoteristi: quando la tigre si lancia all’attacco, non è possibile salvarsi volgendole le spalle con la fuga, né affrontarla a mani nude in una impari lotta. Bisogna essere, invece, così abili e coraggiosi da saltarle in groppa e lasciarsi portare da essa dove vuole, fino a che la belva incomincerà a stancarsi e a perdere molto del suo slancio; e solo allora sarà possibile domarla.

Perciò, nel combattere le ossessioni della mente, la forza di volontà non basta; anzi, essa finisce per diventare il loro migliore alleato e per combattere contro di noi. Immaginiamoci un uomo il quale, perseguitato dal ricordo di un evento passato, si imponga di non pensarci: più se lo impone, e più la sua anima rimarrà prigioniera del cerchio stregato di quello.

Per liberarsi di quel pensiero, bisogna accettarlo e lasciare che attraversi la nostra consapevolezza; per quanto doloroso ciò possa essere, è l’unica strategia vincente, capace di strappare alla belva della mente gli artigli con i quali vorrebbe dilaniarci all’infinito.

Una volta che si sia riusciti a fare questo, ci si accorgerà che la mente, una volta domata, può divenire una nostra preziosa alleata: ma solo dopo che le avremo fatto sentire, con la forza delle redini e del morso, chi sia il più forte, tra essa e noi.

L’importante è ricordare che noi non siamo mai soli e che, quando il nostro coraggio vacilla, c’è una forza divina che è sempre pronta ad assisterci, a rincuorarci e a moltiplicare le nostre risorse, se solo noi sappiamo aprirci ad accogliere il suo benefico influsso.

In fondo, si tratta solo di abbandonare la superbia dell’ente che si crede autosufficiente e riconoscere che, come parte dell’Essere, noi possiamo tutto; mentre, come individui isolati, non possiamo fare proprio nulla.

Estratto da Stampa Libera

Articolo di Francesco Lamendola – 10/12/2010
Fonte: Arianna Editrice

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